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La grande bellezza (Festival di Cannes 2013 - In concorso)

La dolce vita contemporanea, raccontata con non meno spregiudicata verità, da un Paolo Sorrentino capace di prendere a cazzotti lo stomaco e la mente

Unico film italiano in concorso al Festival di Cannes 2013 (se si esclude Un château en Italie della naturalizzata francese Valeria Bruni Tedeschi), La grande bellezza di Paolo Sorrentino è stato accolto, soprattutto dalla stampa internazionale, con un plauso unanime. Perché all’estero si capisce l’eccellenza del cinema italiano rappresentata da questo regista (insieme naturalmente a Matteo Garrone, seppur con un approccio totalmente differente) e invece nel nostro Paese tendenzialmente lo si guarda ancora con sospetto (tranne a giudizio di chi scrive naturalmente e di chiunque si voglia unire)? Quello di Sorrentino è un cinema di maniera, è vero, ampolloso ed inverosimile, barocco e grottesco, ma non per questo meno vicino alla realtà.
La malinconia del protagonista Jep Gambardella, un giornalista di 65 anni ormai residente a Roma da quarant’anni, è scaturita dalla consapevolezza del nulla che lo circonda. Lui è il re delle feste, dove i trenini che si fanno sul terrazzo di casa sua sono i migliori perché non portano mai da nessuna parte. La sua vita si svolge come una sequela di party ed incontri stravaganti, dove la borghesia romana, fatta di imprenditori arricchiti e nobili decaduti è una ostentazione di happening artistici e discussioni letterarie e sociali. Jep si ritrova a pensare al suo primo romanzo L’apparato umano, un grande successo letterario ma anche l’unico, al quale non vi è mai stato un seguito poiché colto dal blocco dello scrittore. Stanco di fare cose che non gli va di fare Jep comincia a ragionare sulla sua vita così frenetica e vuota nello stesso tempo, dove a circondarlo è un’umanità alienante e disgustosa.
Sullo sfondo una Roma dall’architettura unica, dove la macchina da presa entra di prepotenza fra palazzi e giardini come un uccello che sorvola gli spazi, i movimenti di cinepresa prima lenti e fluidi (quasi da cartolina documentaristica), poi accelerati e schizofrenici nel ritrarre la movida serale, ci consentono di amare alla follia e detestare profondamente la città e questo tipo di vita, il tutto in concomitanza con l’evoluzione del protagonista.
Toni Servillo rappresenta alla perfezione questo dandy decadente, circondato da freaks e mostri di contemporanea verità, spaesato e desideroso di cambiamento. Ad affiancarlo Carlo Verdone e Sabrina Ferilli, l’uno un regista fallito e l’altra una spogliarellista ormai alla fine di una carriera, unici membri della cerchia di Servillo ad essere realmente 'umani'.

Paolo Sorrentino conferma ancora una volta il suo talento di regista ma soprattutto di scrittore, dove i monologhi del protagonista e gli scampi di battute sono un godimento per le nostre stanche orecchie, vessate dalla futilità di certi discorsi sentiti altrove.

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