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Promised Land

Deludente prova per Gus Van Sant: Promised Land si nutre di stereotipi, ovvietà e facili sentimentalismi, tralasciando anche quel poco di valido che si intravede nel buio pesto… rigorosamente a stelle e strisce. In concorso al 63esimo Festival di Berlino

La Terra Promessa è la vasta campagna della Pennsylvania sotto la quale giacciono immense riserve di gas naturale su cui le compagnie petrolifere hanno messo gli occhi. In una comunità rurale che mostra tutti gli stereotipi americani cinematografici e non giunge Steve, incaricato di raccogliere terreni su cui dare l'avvio alle ricerche e allo sfruttamento del gas.
In un'epoca in cui anche i trattori si comprano facendo i buffi alimentando una vita grama, l'inviato della compagnia pensa di portare la possibilità per un futuro migliore, che come americanamente sappiamo ha il suo prezzo. Coadiuvato dalla sua collega Sue, scopre che forse è più produttivo presentarsi affabili e amiconi piuttosto che professionali, soprattutto quando di fronte c'è una minuscola cellula ambientalista che sparge dubbi e paure su una popolazione di per sé già poco sicura e sfibrata da anni di vacche magre. Svolta finale con livrea da film di spionaggio ed un paio di colpi di scena, prevedibilissimi, che portano all'epilogo colorato di campagne in fiore, di amori rurali appena sbocciati e di coscienza pulita.
Pomposamente annunciato come opera ecologista per eccellenza che pone all'attenzione il tema dello sfruttamento del sottosuolo e i suoi rischi, il film appare più come una discesa all'inferno e una resurrezione per il protagonista in carriera. Nonostante presenti qualche spunto che avrebbe meritato miglior approfondimento (il dilemma della scelta, il valore del denaro e dell'inganno), Promised Land è lavoro che delude profondamente, a maggior ragione se pensiamo che dietro la macchina da presa c'è un regista che come pochi sa essere profondo e tagliente (Paranoid Park ed Elephant, sono film a loro modo eccellenti): ma Gus Van Sant evidentemente non è stato in grado di correggere in corsa soggetto e sceneggiatura scritti da altri (Matt Damon, che avrebbe dovuto anche dirigerlo, e John Krasinski su una storia di Dave Eggers) ed il guazzabuglio alla fine è evidente, quasi inevitabile.
Neppure quella campagna, una volta ventre ricco di un paese che ne ha scritto l'epica, frequentemente scenario di storie splendide (vedi il primo Malick ad esempio), riesce a regalare momenti che diano slancio al film, al punto che forse la migliore scena è quella in cui nel solito bar, dove si celebrano le solite serate per dilettanti, sentiamo cantare Dancing in the Dark di Bruce Springsteen con voci rotte dall'alcool e dal fumo, privilegiando viceversa situazioni scontate fatte di solite donne crepuscolari in cerca di avventure notturne, di bicchieri ripieni di alcool e tintinnanti ghiaccio, di cappellini da baseball e di campi arati, condite da un finale degno del miglior lavoro dozzinale nonché scarsamente credibile se non per chi è convinto che l'amore e la coscienza pulita vincano sempre.

Tutto sommato non male Matt Damon e decisamente brava Frances McDormand, l'unica che almeno ci mette la giusta ironia e cinismo.

 

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