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Fish & Cat - Recensione (Venezia 70 - Orizzonti)

Un piano sequenza lungo un film, che disegna traiettorie spaziotemporali bizzarre in un limbo di personaggi sospesi, ripresi, scomparsi e ripescati che parlano delle loro storie e del loro Paese. Sullo sfondo, il bosco in inverno e due sospetti tavernieri che potrebbero (o forse no) servire carne umana nelle loro pietanze. La sorpresa della 70° Mostra del Cinema mostra un nuovo cinema iraniano meno realista ma forse più incisivamente politico

Il cinema iraniano, o almeno quello che del cinema iraniano arriva nei festival e nelle sale europee, ci ha abituati nel suo realismo un po' mancato (quando le forme del documento narrativo sono veicoli di un punto di vista politico) a mettere al centro del proprio racconto il proprio Paese d'origine prima che i suoi stessi personaggi, personaggi di frequente rappresentati come meri simboli. A volte viene proprio il forte sospetto che questo punto di vista strumentale, il punto di vista che a noi dell’occidente arrogantello viene più semplice da capire (perché è quello che vogliamo sentire), sconfini oltre il dominio del valore cinematografico dentro quello della politica. Intendiamoci, cose del genere succedono anche per il cinema di altre parti del mondo (viene in mente ad esempio la Cina), ma per l’Iran è tanto palese e dura da tanto tempo che ci sarebbe quasi da meravigliarsi che il cinefilo europeo non si sia ancora stancato di assistere sempre alle storie che raccontano le disgrazie di quel popolo di millenaria storia e cultura 'oppresso dal regime degli ayatollah', forse un po’ troppo simili l'una con l'altra da risultare sincere fino in fondo. Anche Mahi va Gorbeh (Fish & Cat) è un film che viene dall'Iran, ma è fatto di un’altra pasta. Fortunatamente, una pasta che ha alla base ingredienti più cinematografici che (geo)politici.
Tutto ha luogo il giorno prima del solstizio d’inverno, il giorno che in tempi antichi e persiani era dedicato a festeggiare Mitra, divinità portatrice della luce (giorno che più recentemente ha visto l’attesa della fine-del-mondo-secondo-i-Maya, giusto l’anno scorso), quando un gruppo di giovani tra i venti e i trent’anni si trovano a campeggiare lungo le sponde di un lago situato nel brullo nord caspico del Paese, proprio là dove negli anni ’70 (quelli che porteranno alla Rivoluzione Khomeinista) avevano avuto luogo misteriosi avvenimenti menzionati nelle cronache giudiziarie dell'epoca, su alcuni ristoratori che servivano carne umana nelle loro portate. Tra questi giovani si aggirano due personaggi dal fare ambiguo, i due gestori di una losca, zozza trattoria, l’unica nelle vicinanze, e alcuni di quelli che vi si imbattono non si sa bene che fine facciano, ma di sicuro spariscono di scena.
Girato tutto in un unico piano sequenza, il film di Shahram Mokri è costruito come un pedinamento, camera a mano, dei suoi personaggi, dei loro incroci e dialoghi, con sullo sfondo il paesaggio brullo dell’inverno, il cielo grigio e il bosco spoglio e smorto. La macchina da presa inquadra senza mai staccare i passi girovaganti dei personaggi, seguendoli mentre si spostano sulla scena e cambiando prospettiva da un personaggio all’altro quando due o più di loro si incontrano e successivamente si separano. La linea temporale, da principio apparentemente banale e prevedibile secondo la logica del continuum, muta a poco a poco da lineare a ricorsiva: lo stesso dialogo è ripreso qualche scena dopo secondo il punto di vista di un differente personaggio, e le scene si annodano l’una con l’altra sinché il garbuglio finisce per assomigliare a una specie di nastro di Möbius multiplo, a una possibile rappresentazione dell’eternità del tempo. Il tempo sospeso diventa tempo indefinito, il campeggio sul lago diventa un limbo che ha molti tratti dell’inferno senza uscita che Dante (e il suo obliquo emulo, Borges) ha tentato di raccontare, il caso di cannibalismo da cui prende le mosse la storia sembra diventare dopo qualche scena solo un ricordo lontano, compaiono presenze che solo lo spettatore sembra notare, una coppia di gemelli senza un braccio, un calmissimo tizio in spolverino, mentre i personaggi non ci fan caso, e cammina cammina un piano sequenza di due ore e un quarto passa in un battibaleno.
Lo stile è un pochino grezzo, a volte, complice soprattutto il budget ridottissimo, ma l’idea di fondo, i suoi garbugli spaziotemporali e la forma di racconto continua, senza stacchi, è forte, originale e anche perfettamente coerente con la materia di base. Il resto lo fanno le storie che i vari personaggi raccontano via via, i loro dialoghi che parlano di loro, delle loro vite e – perché no, visto che qui non disturba per forzatura – anche del loro paese, l’Iran, ma soprattutto la passione che ci mettono nel raccontare. Li unisce il tempo, e la sottile tensione che l’ambiguità di gesti e parole dei due tavernieri in odor di criminale da cui ha inizio il cammino.

In concorso per Orizzonti alla 70° Mostra del Cinema appena conclusa, Mahi va Gorbeh al Lido ha conquistato un premio speciale da parte della Giuria. Per chi scrive è stata la più grossa sorpresa riservata quest’anno da un’edizione piuttosto avara di soddisfazioni sincere, e avrebbe forse meritato anche di più. Di sicuro, quel che si merita è la nostra visione.

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