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L'intervallo (Venezia 69 - Orizzonti)

Una immagine tratta da L'intervalloLeonardo Di Costanzo firma la fuga da Napoli, dentro Napoli, di due adolescenti che si ripigliano, per poche ore, il tempo della propria età. Il film funziona. La Mostra di Venezia applaude ed elargisce premi collaterali

Funziona l’esordio nel lungometraggio del documentarista Leonardo Di Costanzo, presentato alla 69esima Mostra del Cinema di Venezia in Orizzonti. A tal proposito tocca fare un breve intervallo: la sezione che lo ospitava mi pareva consona per un'opera prima, sennonché ho cominciato a rimuginarci sopra quando ho letto l'intervento di Alberto Barbera, nella conferenza stampa di chiusura della Mostra, laddove dice che questo film non è stato inserito in Concorso, perché avrebbe subito la "fattura artistica" dei film degli Autori là presenti. Beh, posto che i cine-gigantoni spesso e volentieri s’affossano da soli, ché subiscono la propria (!) di "fattura artistica", allora non capisco perché i film delle sorelle Comencini siano perennemente in concorso o cosa ci facesse, lì in Orizzonti, Me Too di Aleksej Balabanov, un regista, anzi un Autore – ché dire solo 'regista' pare non basti più (e lo scrivo pure grande come piace a chi crede che una maiuscola sia garanzia di buon cinema) – di riconosciuta stazza internazionale che l'orizzonte lungo del proprio sguardo l'ha sbattuto in faccia più e più volte al mondo. Bah! Misteri.
Ritornando al film, dicevo che tutto funziona: sceneggiatura, dialoghi, regia, fotografia (Luca Bigazzi), interpreti (Alessio Gallo e Francesca Riso), location.

Una immagine tratta da L'intervalloNelle dodici ore che separano, a Napoli, un’alba da un tramonto (primo e ultimo fotogramma del film), due adolescenti, costretti da una convivenza forzata in un ex collegio abbandonato, ritrovano il tempo della spensieratezza di una gioventù che probabilmente non hanno mai vissuto. Le mura diroccate e fatiscenti che li recludono, al tempo stesso li liberano (e proteggono), perché circoscrivono un mondo a sé che, pur rappresentato allegoricamente molto simile a quell’altro, ha possibili vie di fuga. Difatti, malgrado anche 'dentro' incomba il braccio lungo della camorra – a corrugare fronti, a spaurire, a zittire, a indicare l’ineluttabilità di un destino segnato – e gravi un diffuso senso di schiacciamento, esaltato dal rumore assordante dei voli bassi di aerei che portano altrove, la cosa che passa di più è la smemoratezza del fuori e di sé. Quella che prende vita sullo schermo è un'evasione, una regressione dentro piccoli sogni privati, dentro storie di fantasmi e memorie infantili di diavoli e temporali, una sospensione in cui l’avventura fatta di niente (ma grande perché libera) si piglia lo spazio del cinema e lo fa l(i)evitare, così i mefitici sotterranei allagati diventano esotici Mari del Sud, un giardino incolto un'intricata foresta in cui si può pure smarrire la strada, i ruderi sventrati un magico labirinto ove scoprire tracce di giovani suicide di cui s'è persa memoria o seguire strani lugubri lamenti nel buio.

Il tramonto riporterà lui al carretto delle granite e lei in sella a un probabile futuro di capo sempre chino.
L'amorevole stare addosso del regista ai propri personaggi, la presenza di sottotitoli, i momenti di luminoso fermento dell'adolescenza ed anche, curiosamente, la citazione di un programma tv (L’isola dei famosi) da parte dei protagonisti, mi hanno riportato al recente L’estate di Giacomo di Alessandro Comodin, di cui questo film pare una sorta di alter ego meridionale. Seppur con motivi a monte, sfumature, modi, stile e riuscita differenti – e qui nessuno si è sbizzarrito in parallelismi con i più disparati rappresentanti della Nouvelle Vague  – entrambi riescono proprio laddove colgono l'autenticità dell'età che stanno rappresentando, fermandone l'essenza.

Una immagine tratta da L'intervalloIl film di Di Costanzo, che dice e mostra raccontando una storia, è innegabilmente alla portata di un pubblico più eterogeneo (la sala era quasi piena), rispetto a quello di Comodin, che giunge a tratti ostico, benché abbia maggior potere evocativo e sguardo più forte, ma tutti e due sono veri e privi di spocchia. Non 'miracoli', né 'gioielli' da esposizione al Topkapi, visti nel complesso, bensì sguardi nuovi, il che, forse, è anche meglio e fa ben sperare. Se poi ci sarà un futuro, boh, io non lo so.

Chiudo quindi – ebbene sì, malickianamente ad oltranza – con gli interrogativi del grande Jacques Audiard, intervistato dall'inviato di LinkinMovies.it Massimo Volpe che gli chiedeva cosa conoscesse del cinema italiano contemporaneo: "[...] A prescindere 'all'incidente produttivo' (testuale, ndr.) del cinema italiano, oggi ci sono anche film italiani, ma dove vanno? Dove arrivano? Ricordo sempre che negli anni '70-'80 ogni anno in Francia arrivavano almeno 4-5 film italiani di grande qualità e tutti noi li aspettavamo con ansia e correvamo al cinema a vederli, ma ora dove sono (dove sono gli autori pure, magari ndr.)? In Francia non arrivano e quindi onestamente non li conosco più".

Qualcuno vuol rispondergli?

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