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Intervista a Mario Piredda per L'agnello

Un dramma familiare nella Sardegna delle servitù militari. Mario Piredda racconta L’agnello, opera prima presentata in concorso ad Alice nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma 2019, dove la protagonista Nora Stassi ha ricevuto una menzione speciale per la sua interpretazione

Mario Piredda nasce a Sassari nel 1980. Dopo il diploma lascia la Sardegna e si trasferisce a Bologna dove si laurea al Dams e lavora come regista, tornando spesso nell’isola d’origine che rappresenta per lui il luogo ideale nel quale ambientare molte delle sue storie. Nel 2005 vince un concorso di antropologia visuale e realizza il suo primo cortometraggio: Il suono della miniera. Il suo secondo lavoro, Io sono qui, viene candidato al David di Donatello nel 2011. Nello stesso anno gira a Cuba Los aviones que se caen che partecipa a numerosi festival internazionali. Lavora poi come videomaker, soprattutto nel mondo musicale, seguendo gruppi come Litfiba e Negramaro. Nel 2015 è autore del documentario Homeward, girato in Cambogia, e nel 2017 viene nuovamente candidato al David di Donatello per il miglior cortometraggio che questa volta vince con A casa mia, breve film dove vengono affrontati temi come lo spopolamento e la perdita di autenticità del territorio, la solitudine degli anziani e il disagio delle nuove generazioni.

Una storia portata sullo schermo con uno stile che riprende anche nel suo esordio nel lungometraggio, L’agnello, presentato in anteprima ad Alice nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma. Al centro del racconto la diciassettenne Anita (Nora Stassi) che vive con il padre Jacopo (Luciano Curreli), malato di leucemia, vicino a una base militare. L’uomo avrebbe bisogno di un trapianto con urgenza, ma i tempi d’attesa per la ricerca di un donatore sono troppo lunghi rispetto al progredire della malattia e anche se i parenti hanno più probabilità di essere compatibili, non lo sono né Anita né suo nonno. Jacopo ha un solo fratello, ma i due non si parlano da anni a causa di un feroce litigio che non sembrano intenzionati a dimenticare. Anita cerca di ricucire gli strappi del passato, per convincere lo zio a fare le analisi che potrebbero salvare la vita di suo padre.

Quali sono state le maggiori difficoltà nella realizzazione di questa opera prima, esordio nel lungometraggio dopo l’esperienza con diversi corti anche molto apprezzati?
Il lavoro di scrittura, con Giovanni Galavotti, è stato molto lungo. Io non mi ero mai confrontato con la struttura del lungometraggio e lui che ha più esperienza mi ha aiutato in questo percorso. E poi c’è stato un anno di scouting per le location e gli attori, con scelte che hanno portato a modificare la sceneggiatura perché mi piace modellarla in base ai luoghi dove il film verrà girato e agli interpreti che vestiranno i panni dei personaggi. Qualcosina è stata riscritta anche durante le riprese.

E il lavoro sul set, ovviamente più lungo rispetto a quando si gira un corto?
La troupe in gran parte è stata quella di A casa mia. Il corto era andato bene e ci tenevo a lavorare più o meno con le stesse persone, mi piace molto l’idea di questo percorso lavorativo comune. I film non si fanno da soli e puntare su quella squadra mi dava più sicurezza. Il lavoro sul set si è rivelato impegnativo sia dal punto di vista fisico sia da quello emotivo. Abbiamo girato in inverno e i primi giorni sono stati difficilissimi anche per il clima. Poi le cose sono migliorate e alla fine siamo riusciti a rispettare il piano di lavorazione. Ma non sei mai certo di avere tutto quello che ti serve. Per questo mi piace girare molto e avere più materiale per costruire il film al montaggio.

Volto, anima del film è la giovane Nora Stassi che ha anche ricevuto una menzione speciale per la sua interpretazione all’interno del concorso di Alice nella Città. Com’è stata scelta per il ruolo da protagonista?
Sin dall’inizio per il ruolo di Anita avevo optato per una non attrice. Volevo un volto nuovo, una ragazza sconosciuta. E insieme a Stella La Boccetta, responsabile del casting, abbiamo iniziato questo percorso di ricerca in Sardegna che sapevo non sarebbe stata semplice. Cercavo una persona che avesse un suo vissuto anche doloroso e che sapesse nasconderlo bene. E poi doveva essere ironica. Ho fatto il provino a tantissime ragazze fino a quando Stella non mi ha chiamato dicendomi di aver forse trovato la persona giusta in un bar e mi ha mandato un video. Il primo provino, non è andato benissimo, ma poi parlando con lei ho capito che ero sulla strada giusta. Mi ha colpito in particolare per come si raccontava mischiando il comico e il drammatico.

Che tipo di lavoro di preparazione avete fatto con lei prima di arrivare sul set?
In realtà non mi piace lavorare molto con gli attori prima. C’è il rischio di caricarli troppo, che diventino meccanici e perdano di spontaneità. Nora doveva portare al personaggio di Anita qualcosa di suo. E lo ha fatto. Le prove hanno riguardato più che altro l’intesa con gli altri interpreti, per capire se funzionavamo insieme anche visivamente.

L’intesa con Luciano Curreli che interpreta il padre traspare in modo evidente dallo schermo.
Luciano Curreli è un grande attore ed è stato bello conoscerlo come persona. Ha una grande sensibilità. Il suo personaggio era difficile da rappresentare, non volevo il solito malato moribondo, buono, stereotipato. Cercavo qualcuno che sapesse arrabbiarsi, ironizzare sulla propria condizione e Luciano ci è arrivato molto bene a questo. Come interprete si mette completamente a disposizione della storia e percepisce il suo ruolo in un contesto corale, lavora insieme agli altri. Ha aiutato molto Nora, si è instaurato un grande feeling tra loro come fossero davvero padre e figlia.

Se il cuore del film è il rapporto tra loro, padre e figlia, hanno grande spessore anche i personaggi del nonno e dello zio con interpretazioni davvero convincenti.
Piero Marcialis che interpreta il nonno ha lavorato soprattutto in teatro, ma l’avevo visto la prima volta nel film Pesi leggeri di Enrico Pau dove mi aveva colpito. Anche se allora era molto più giovane. Michele Atzori che invece è lo zio, è un cantante ed è stata una bella scoperta come attore. Mi ha subito impressionato per il viso, la fisicità, il carattere. Trovare queste cose in un attore è per me fondamentale anche se magari somiglia poco al personaggio come l'ho inizialmente scritto.

Protagonista è anche la Sardegna.
Ho girato l’isola in lungo e largo, fino a quando non mi hanno portato sul Supramonte di Urzulei che è diventata la location principale. Mi sono subito innamorato del posto, esteticamente è folgorante. Una zona brulla, con il cielo terso, le nuvole basse.

Il film tocca anche il tema della salute in relazione alla vicinanza delle basi militari. Come si è documentato sull’argomento?
Conoscevo già il tema perché nel 2009 avevo girato un corto Io sono qui che toccava lo stesso argomento e mi ero documentato al tempo. Mi hanno aiutato poi il libro Lo sa il vento di Carlo Porcedda e Maddalena Brunetti e alcuni documentari, soprattutto Materia oscura di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti che visivamente è molto forte. Poi ho fatto anche alcune interviste, ricerche sul campo, ma non dovevo realizzare un documentario. L’approccio era per un film di fiction, volevo raccontare le traversie di un padre e una figlia che vivono vicino a un’ipotetica base militare.  

In Sardegna una realtà abbastanza comune.
Il territorio sardo ospita più della metà di tutto il demanio militare italiano. Poco abitata e in una posizione strategica, l’isola è stato il posto ideale dove collocare la maggior parte delle basi militari interforze. I poligoni di Teulada e Quirra hanno sviluppato come principale attività la sperimentazione di nuove armi e la guerra simulata, in aree naturali che si estendono dall’entroterra al mare. Ai margini di questi territori, secondo le stime l’incidenza tumorale ha raggiunto picchi altissimi imputabili all’ingente presenza di polveri radioattive, residui delle esplosioni e delle esercitazioni. Della relazione tra attività militari e salute si parla da tempo in vari documentari, in inchieste giornalistiche, nelle aule dei tribunali. Una relazione che non riguarda solo i soldati, ma anche i pastori, i civili che lavorano nelle basi e gli abitanti dei centri vicini. È un dato di fatto per chi vive in Sardegna, ma è meno noto per tutti gli altri. Sono partito da una delle tante storie di persone che risiedono in quei territori, in cui la convivenza forzata tra civile e militare è ordinaria quotidianità. È proprio in questa normalità che ho scelto di ambientare il racconto, cercando di realizzare un film non esplicitamente di denuncia. L’agnello resta per me un film ambientato in un territorio e non su un territorio, con al centro un dramma familiare che potrebbe essere raccontato in qualunque parte del mondo.




Fabio Canessa

Viaggio continuamente nel tempo e nello spazio per placare un'irresistibile sete di film.  Con la voglia di raccontare qualche tappa di questo dolce naufragar nel mare della settima arte.

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