News, recensioni, approfondimenti sul cinema asiatico

Ti trovi qui:HomeCinema e dintorniAsiaIn Another Country - Recensione

In Another Country - Recensione

La metamorfosi di stampo rohmeriano di Hong Sang-soo giunge probabilmente al suo punto di non ritorno: di Rohmer però ce n'è uno solo e autoreferenzialità e autocitazionismo non bastano più al regista coreano per creare un bel film

La metamorfosi di stampo rohmeriano di Hong Sang-soo prosegue senza sosta e giunge, probabilmente, al suo punto di non ritorno, anche perché il regista sudcoreano sembra ormai impantanato pericolosamente in sabbie mobili narrative dalle quali uscire non sarà semplice se si continua ad inseguire un modello che al momento appare irraggiungibile.
Che Hong non sia Eric Rohmer lo sa bene anche lui, tanto che per imprimere ancora più fortemente la sua impronta si rivolge per questo lavoro ad una delle attrici icone della Nouvelle Vague, quella Isabelle Huppert su cui In Another Country è costruito in maniera predominante su un modello stile divertissement piuttosto intellettualoide, che finisce col creare una atmosfera a volte quasi surreale, più spesso stonata.
La trama tripartita si impernia su una sceneggiatura scritta dalla solita aspirante regista (figura ricorrente nel cinema di Hong) che non sa come passare il tempo in una località balneare coreana di indubbio squallore: tre storie con protagonista sempre un'affascinante francese (una regista - e ti pareva -, un'amante di un coreano e una divorziata mollata dal marito per una coreana) che incontra sempre, in tutti e tre i segmenti, le stesse persone, tra le quali un bagnino mezzo idiota, mezzo galletto.
Per il resto è la solita parata di: registi sfigati e sfasati in cerca di gloria, coreani perennemente ingrifati pronti ad allungare le mani, donne coreane scostanti e rissaiole, 'magnate e bevute' a non finire con l'immancabile soju-acido muriatico che deforma le facce all'atto della deglutizione e che libera gli istinti e le vere personalità dei protagonisti.
Tutto già visto quindi? Non proprio, le canaglie detestabili dei film di qualche anno fa che Hong riusciva a rendere quasi simpatiche, si sono trasformate in guitti semi-idioti, simpaticamente fin troppo vacui che ingenerano più fastidio che empatia; la tematica meta-cinematografica (termine abusatissimo ahimè) diventa una autocitazione perenne avvolta in un loop infernale, e il sarcasmo si annacqua man mano che Hong si avvicina a Parigi e si allontana da Seoul.
Qualche momento divertente nel film c'è, qualche accenno alla incomunicabilità pure (più a la Lost in Translation a dire il vero), il tema della donna spesso sola e abbandonata rimane uno dei cardini, ma in più di un frangente il film è sembrato scivolare verso l'ellissi mortale di Eternal Homecoming di Kira Muratova, sublimazione del metacinema al livello più inconcludente.

Hong
continuerà a ricevere premi e ad essere osannato nella sua patria adottiva, che ruffianamente adotta tutti quelli che contribuiscono alla costruzione della sua grandeur cinematografica in un impulso di autoreferenzialità tutta francese, ma il suo cinema sembra essere giunto ad un punto fermo, privo di slancio, al quale non è più sufficiente mostrare le indubbie capacità tecniche quando l'ispirazione narrativa si adagia su tematiche sempre uguali a se stesse.

Vai alla scheda del film

 

Lascia un commento

Assicurati di inserire (*) le informazioni necessarie ove indicato.
Codice HTML non è permesso.


Questo sito utilizza cookie per il suo funzionamento. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. Se vuoi avere maggiori informazioni, leggi la Cookies policy.