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Lethal Hostage

Immagine da Lethal HostageUn poliziesco di destini incrociati, in cui resiste vitale quell'afflato romantico che palpitava nei polizieschi melò degli anni '80 e '90 del cinema di Hong Kong, ma esiste anche una voglia di declinare il grigio e il nero del genere in una storia molto molto cinese di famiglia, sogni costretti e silenzi ad effetto

Una bimba rapita che fattasi donna si innamora del suo rapitore e lo vuole sposare, un padre sconfortato e abbandonato da ogni punto fermo su cui credeva di poter far conto, un criminale che da braccio destro del boss (complice un colpo andato male) diventa lui stesso un boss del traffico di droga, una ragazzaccia impertinente e il suo cane troppo curioso, un poliziotto con la faccia sorniona da duro che della ragazzaccia è il fratello, un tipo silenzioso che sbarca il lunario facendo il sicario e il corriere di eroina: sei personaggi, sei caratteri e neanche un nome, sei maschere che (r)esistono tra il cielo grigio e le strade sporche di un puzzle di vite e rapporti ambientato tra lo Yunnan e Pechino; gli ingredienti della storia di Lethal Hostage (presentato pochi giorni fa al Chinese New York Film Festival) sono tutti qui, semplici come il destino, ma l’essenza del racconto sta più che altro nel come questi ingredienti vengono mescolati, amalgamati, scomposti e poi ricomposti a disegnare una spirale che, inevitabile, porta allo scoperto la direzione convergente del loro karma.
Storia di malavita, storia di destini, storia di drammi muti e di facce indurite dai ricordi; se in passato è stato spesso il cinema di Hong Kong a portare sullo schermo la contrapposizione romantica tra guardie e ladri che vivono in un mondo in cui un certo codice di comportamento assume un valore riconosciuto, con il venir meno del retroterra di nero e d’angoscia collegato al ritorno alla madrepatria tanto temuta e con l’avanzare inesorabile dei paletti imposti o autoimposti alle storie di gangster dalla censura della Cina Popolare, è proprio sulla terraferma che si sono spostate alcune delle storie di malavita più interessanti del decennio trascorso (punto di svolta, probabilmente Election 2 di Johnnie To).
Cheng Er
sembra consapevole delle potenzialità ancora non espresse di questo cinema di genere pur all’interno dei vincoli della censura, e scrive e orchestra una storia di onore e famiglia, di affetti e delusioni, di disperazione e redenzione che segue vie di narrazione eleganti ed efficaci: la frammentazione spazio-temporale delle vicende tiene in tensione da subito, i personaggi poco loquaci ma molto espressivi nelle loro azioni sono tagliati a misura sui corpi e i volti degli attori protagonisti (su tutti un terzetto di scarse parole ma capace di bucare lo schermo: Sun Honglei, Ni Dahong e Yang Kun), la colonna sonora e le sue schitarrate e i suoi crescendo si fonde alle immagini e le accompagna senza invadere la scena.

Quel che ne esce è uno dei polizieschi più originali e riusciti degli ultimi anni, e non solo dalle parti del cinema cinese. Un bel colpo, davvero.

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