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Pietà

Una immagine tratta da PietaI soldi sono la misura di ogni rapporto, in una Corea del Sud in piena rincorsa alla modernità: il 18esimo lungometraggio di Kim Ki-duk, il regista di culto che stava per appendere la macchina da presa al chiodo per problemi economici, fa i conti con le distorsioni del denaro con un revenge-movie ad alto tasso tragico. Leone d'oro a Venezia 69

Sospiro di sollievo: Kim Ki-duk è resuscitato. Ebbene sì: dopo alcuni film dimenticabili e una lunga impasse creativa, durata tre anni di silenzio (un tempo incredibilmente lungo per un regista come lui abituato a girare uno-due film all'anno) a causa di problemi economici con il suo produttore di fiducia e culminata in Arirang (documentario in cui il cineasta sudcoreano mette a nudo tutta la sua frustrazione artistica ed esistenziale), eccolo ritornato in forma con Pietà (in concorso alla 69esima Mostra del Cinema di Venezia) che riporta il suo cinema ai picchi se non dei suoi capolavori (Bad Guy, Ferro 3, La samaritana) quantomeno delle sue opere più riuscite.
L'universo cinematografico di Kim è fatto di individui ai margini della società, loser attraverso cui sviscerare vere e proprie ossessioni attorno i temi dell'incomunicabilità, del rapporto tra l'uomo e la società, della scontro tra modernità e tradizione. Non si smentisce nella sua ultima fatica, dove un ragazzo solitario e brutale, Kang-do, capace delle peggiori sevizie pur di riscuotere i debiti dell'usuraio per cui lavora, e una donna affascinante dal passato misterioso, Mi-sun, che dice di essere la madre che lo ha abbandonato subito dopo averlo messo al mondo, (re)incrociano i loro destini in un giorno come altri. Mi-sun bussa alla porta di Kang-do: vorrebbe iniziare a instaurare un rapporto madre-figlio prendendosi cura di lui, ma il giovane non ne vuole sapere di accettare di far entrare nella sua vita la donna e cerca di respingerla con violenza. Sorge spontanea una domanda: perché Min-sun si rifà viva improvvisamente? La risposta arriverà strada facendo, quando a poco a poco prenderà corpo una terribile vendetta che si abbatterà sulle esistenze di Kang-do e di Mi-sun (di più non possiamo dirvi per non rovinarvi la sorpresa...) con esiti a dir poco tragici.  
Seguendo le coordinate della colpa, della redenzione, della riscoperta del sentimento della pietas tra  situazioni cruente e fugaci momenti di intimità tra madre e figlio, dentro cui è inscritto il percorso di riavvicinamento tra Min-sun e Kang-do che indurrà quest'ultimo a prendere coscienza – seppur a caro prezzo – del male perpetuato dalle sue azioni, Kim percorre il sentiero nero di un'umanità in cui il denaro è diventato la misura di ogni rapporto. Gli individui a cui Kang-do infligge insostenibili pene corporali sono persone disposte a mettere a repentaglio la propria incolumità pur di farsi concedere un prestito. Lo stesso protagonista ha sacrificato qualsiasi sentimento di umana compassione verso l'altro sull'altare del dio denaro. Tutto ciò farebbe pensare a un film moralista e pedante, infarcito di riferimenti (a cominciare dal titolo) alla dottrina cristiana: per carità, niente di più sbagliato! Perché il regista sudcoreano sa intrattenere e far riflettere, esplorando pulsioni potenzialmente distruttive, come l'avidità, il cinismo, l'egoismo, l'indifferenza, con una messa in scena che ci trafigge il cuore per quel misto di poeticità e cattiveria in cui viene messo a nudo tutto il meglio e tutto il peggio di cui è capace l'uomo.

I nostri occhi si riempiono quindi di immagini che, tra rovinose cadute e miracolose resurrezioni, sono, al tempo stesso, riflesso di un mondo esterno e disvelamento di un altro mondo interiore tutto da scoprire. Una magia su grande schermo che solo a Kim riesce molto bene e di cui sentivamo la mancanza. Bentornato, Kim!

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