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Giovani anime in pena

Keeping Watch, esordio alla regia di Cheng Fen-fen con una sofferta storia d’amore giovanile, e Dada’s Dance, road-movie con protagonista una ragazza in fiore che ha smarrito se stessa, animano l’Asian Film Festival. Ospite Jia Zhang-Ke, il regista testimone dei mutamenti della Cina

Sentimenti all’Asian Film Festival: quelli d’amore di Keeping Watch, una commedia diretta da Cheng Fen-fen, un regista taiwanese da tenere d’occhio, e quelli privati di Dada’s Dance, una sorta di romanzo di formazione a mo’ di road-movie, in cui Zhang Yuan, cineasta di punta della cosiddetta Sesta Generazione del cinema cinese, scandaglia l’universo dei giovani.

In Keep Watching assistiamo alle vicissitudini di Ching, una giovane orologiaia che si è rinchiusa in se stessa dopo aver patito l’abbandono della madre (sparita da un giorno all’altro) e che sembra aver rinunciato ad avere una vita sociale, e di Yu, un ragazzo affetto da disturbi psichici da quando ha assistito alla morte di Han, un compagno di liceo che nutriva dei sentimenti per la ragazza, la cui scomparsa ha scatenato in lui un senso di colpa che gli ha fatto assumere una personalità dissociata. Yu inizia ad intrattenere rapporti assidui con Ching perché crede di essere Han, ma lei, dimentica del suo passato, non può immaginare cosa lo spinge a frequentarla. Tra di loro si stabilisce una specie di amore platonico, reso difficile dal peso del bagaglio di problemi quasi insormontabili che entrambi portano sulle spalle. Forse solo la loro unione sentimentale potrebbe esorcizzare le paure che li attanaglia.

Cheng imbastisce un film interessante ed allo stesso tempo inconsistente, sospeso tra la vocazione ad un cinema d’autore dall’impronta personale e lo sforzo di renderlo appetibile ad un pubblico giovane e magari anche internazionale. Un’opera interessante perché bisogna dare atto al regista di aver svolto un lavoro sull’immagine di grande rilievo, attraverso uno sperimentalismo che sprizza poeticità da tutti i pori – dall’uso non convenzionale delle didascalie per estrinsecare le intermittenze del cuore dei personaggi, all’impiego di un montaggio ellittico, dal ricorso ad inquadrature caratterizzate da prospettive azzardate, alla scelta di sospendere a volte la narrazione con inserti che sembrano dipinti impressionisti concepiti per soffermarsi a contemplare le situazioni più delicate – e che ricorda, seppure con le dovute differenze, la modernità del Wong Kar Wai alle prime armi e l’introspezione giocosa di Michel Gondry.   Ma un’opera anche inconsistente perché si avverte uno scarso approfondimento dei contenuti in gioco (la solitudine, le difficoltà della gioventù di oggi, il senso di colpa, l’assenza di punti di riferimento nella società, il passato che determina il futuro) e troppe concessioni ai gusti del pubblico dei ragazzi. Nel complesso Keeping Watch rimane comunque un ottimo esercizio di stile sulla sfera affettiva che fa ben sperare per il futuro di Cheng.

In Dada’s Dance, invece, si narra il viaggio dell’anima di una ragazza affascinante, una di quelle capaci di fare girare la testa ad ogni uomo, che, dopo aver scoperto di essere stata adottata, decide di lasciare la casa materna, per andare alla ricerca della madre biologica in compagnia di un suo coetaneo con cui è sbocciato un amore tenero e giocoso. Incomincia così un peregrinare per la Cina che diventa anche un percorso di scoperta di se stessi in una fase critica della propria vita, la giovinezza.

Dopo aver firmato alcuni film che hanno fatto arrossire il regime comunista, Zhang alleggerisce il carico urticante del suo cinema, e sforna una pellicola dal tocco lieve che ripropone uno dei temi che gli stanno più a cuore, il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Dada’s Dance è condensato sulla protagonista (la splendida Li Xinyun, che ha già lavorato con il regista in La guerra dei fiori rossi), una ninfetta agitata da un dinamismo nevrotico, immortalata in un panorama sociologico che esprime un vuoto culturale avviato ad un inesorabile peggioramento; ed è impaginato con una neutralità morale ed un’eccelsa padronanza dello stile. Lento, sinuoso, avvolgente, come le musiche che balla la ragazza in alcune scene: il film è la melanconica radiografia del malessere delle nuove generazioni visto dall’occhio di un regista che sembra già esserne fuori.

Tra un film e l’altro il festival ha accolto Jia Zhang-Ke, arrivato a Roma insieme all’attrice Zhao Tao, protagonista di quasi tutti i lavori del regista e documentarista cinese. Jia, da sempre attento alla realtà in mutamento della Cina, ha introdotto il pubblico alla visione di due suoi film, Pickpocket e The World, che fanno parte della retrospettiva integrale a lui dedicata. Il primo cattura le disavventure di un borseggiatore di Fenyang che non vuole arrendersi alla legge e cambiare la sua vita per stare al passo con i tempi. Il secondo mostra il senso di soffocamento provato da una ragazza che spende gran parte del suo tempo stando rinchiusa per lavoro in un parco di attrazioni di Pechino. Entrambe le pellicole forniscono un’istantanea amara delle contraddizioni di una Cina che guarda al progresso senza preoccuparsi dello sradicamento esistenziale coatto a cui sono sottoposte le vite di molti.

Francesco Siciliano

7 luglio 2009

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